VIII
La pratica è inoltre un processo fatto di livelli che si dischiudono, nei quali praticare mette in comunicazione il praticante con la pratica stessa. L’apprendista si unisce al mestiere che pratica e comincia ad acquisire gli strumenti del mestiere. Queste abilità conducono a loro volta alla padronanza della pratica. Questo stadio, il completamento del percorso dell’artigiano e l’inizio della maestria, avviene quando l’artigiano tenta di trasmettere agli altri la propria pratica. L’artigiano può condividere solo ciò che ha: la qualità dell’esperienza e il fare esperienza all’interno della propria presenza; e da questa può attingere, chiarificarla e presentarla in una forma coerente accessibile agli altri. L’affinamento e l’acquisizione dell’esperienza, e poi il condividerla, è il passo finale necessario nel percorso della pratica. Se l’artigiano è capace di trasmettere la qualità essenziale del proprio percorso di mestiere, la pratica del mestiere diventa parte dell’artigiano, e l’artigiano diventa parte del mestiere. Da questo momento, l’artigiano agisce come un rappresentate del proprio mestiere.
Il processo di acquisizione della maturità, sia nel mestiere che nella vita, è legato necessariamente e inevitabilmente alla velocità di quel processo. Veniamo sviati dal ritmo incalzante dei cambiamenti nella nostra cultura e nell’ambiente che ci circonda, e dimentichiamo che la durata di un processo organico è determinata dalla durata necessaria a quel particolare processo. Comunque, il tempo impiegato per imparare qualcosa diminuisce a seconda del numero di persone che ci lavorano. Gli artisti non crescono alla velocità degli “artigiani”; gli “artigiani” non crescono alla velocità dei manovali. Ma, la qualità del lavoro del manovale aiuterà l’artigiano, e la qualità del lavoro dell’artigiano supporterà l’artista. La qualità del lavoro dell’artista guiderà l’artigiano, e la qualità del lavoro dell’artigiano attirerà il manovale. Nel corso dell’opera, il lavoro di uno aiuterà il lavoro di tutti.
Un processo si può dividere in tre stadi: l’inizio, l’intermedio, e la fine. Ognuno di questi tre stadi ha tre livelli: l’inizio, l’intermedio e la fine.
Il vero inizio, l’origine di un processo, è invisibile. Quando ci siamo avviati e ci guardiamo indietro per scoprire il nostro inizio, esso ci sfugge. Più cerchiamo di afferrare il nostro inizio e più si allontana. A metà del livello iniziale avanziamo delle pretese sul nostro ambiente: sentiamo di essere meritevoli in virtù del nostro talento, o di vantare dei diritti nei confronti della società e della situazione nella quale ci troviamo. Chiediamo al nostro ambiente un certo tipo di attenzioni, ma non pretendiamo un certo tipo di prestazioni da noi stessi. Se la società non ci paga mai i crediti cui pensiamo di avere diritto, restiamo fermi a questo livello. Rimaniamo all’inizio, ma senza la caratteristica innocenza di un vero inizio. Questa è immaturità. A questo stadio dobbiamo concentrare l’attenzione su ciò che facciamo, e sulla qualità della nostra operatività. La qualità dell’inizio dà l’impeto al nostro percorso, e più in generale ne determina il carattere. Se cominciamo bene, la spinta ci porta fino al punto intermedio del percorso. La chiave, a questo stadio, è l’obbedienza al nostro istruttore.
La tradizione vuole che all’inizio di una performance, il leader di un gruppo invochi la Musa. Questa è una richiesta diretta di aiuto al livello creativo, un riconoscimento che dal musicista non può venire nulla di valido, ma che qualcosa di valore può arrivare al musicista. Il musicista ha la responsabilità di essere preparato per questo momento, e il leader ha la responsabilità di determinare un buon inizio.
L’inizio del livello intermedio è il momento in cui ci occupiamo della capacità di compiere sforzi personali. Pretendiamo da noi stessi, piuttosto che dal nostro ambiente.
Il momento centrale di questo livello è quello in cui l’entusiasmo si esaurisce e il nostro impegno viene messo alla prova. Questo è il Grande Bivio: siamo troppo lontani dall’inizio per tornare indietro, troppo lontani dalla fine per andare avanti; troppo stanchi per fare qualcosa, troppo esposti per non fare niente; non abbiamo più interesse per il nostro scopo, se pure riusciamo a ricordarlo. Questo è un momento inevitabile in ogni processo, ed è quello in cui è più facile smarrirsi o mollare tutto. Questo è il punto di massimo rischio. Se il processo deve restare fedele a se stesso, dobbiamo fare uno sforzo intenzionale per rimanere all’interno del processo. Questo è un indice del nostro impegno nello scopo. Inevitabilmente perderemo interesse nella pratica; questo fa parte del processo del praticare. L’aforisma del Guitar Craft è questo:
Quando sei stanco, quando ne hai avuto abbastanza, e non riesci a fare niente – non fare niente. E mentre fai niente, pratica.
Continuare è un atto irrevocabile, a prescindere da dove potrà portarci. Nel processo del mestiere, il momento in cui ci impegniamo a continuare è quello in cui intraprendiamo l’apprendistato. Qui raffiniamo la nostra competenza all’interno del mestiere, e ci predisponiamo a lavorare di nostra iniziativa, senza badare a simpatie e antipatie personali, in risposta alla necessità. Se completiamo questo affinamento, la fine del livello intermedio diventa l’inizio della fine. La chiave di questo stadio è l’obbedienza a noi stessi.
Lo stadio finale in un processo è quello in cui ci occupiamo della qualità della nostra applicazione. Il lavoro di qualità va oltre quello individuale, e così ci confrontiamo con le richieste del mondo al di fuori di noi. Cosa si aspetta da me il mondo esterno? Cosa mi serve per poter ottemperare ai miei obblighi? Nel percorso del mestiere, si offrono le proprie capacità al mondo. Quando abbiamo il mestiere necessario e la competenza sufficiente, il mondo ci riconoscerà. Una caratteristica di questo stadio è il riconoscimento da parte del mondo, e un certo successo. Questo è lo stadio intermedio della fine. La fine della fine può essere una conclusione, una fine, o un completamento. Se vogliamo illuderci e credere che il consenso che il mondo ci ha dato sia un riflesso del merito personale, questa sarà la conclusione per noi e per questo particolare processo del nostro mestiere. Se rinunciamo al richiamo del successo personale e del consenso, riconoscendo che è la musica a fare il musicista, raggiungeremo il grado di artigiano nel processo della musica. Questo è uno status rispettabile. Alcuni decidono di sostenere il mondo fermandosi qui. Per altri l’abbandono è un completamento: è un abbandono totale e senza riserve alle direttive del mestiere. Ci si mette al servizio del mestiere, dovunque ci guidi e qualsiasi cosa ci richieda. Questo è l’inizio dell’inizio della maestria nella musica. La chiave di questo stadio è l’obbedienza alla necessità.
La sofferenza è parte inevitabile di un processo. Alcune sofferenze sono inutili, altre necessarie. La regola nella sofferenza necessaria è: soffri allegramente. Se la nostra sofferenza è di qualità, non sarà mai visibile agli altri. La natura della sofferenza necessaria cambia con il progredire delle fasi, e per procedere nel percorso del praticare, accettiamo volontariamente questa sofferenza necessaria. Il primo stadio di sofferenza sta nel riconoscere la nostra scarsa funzionalità: quanto suoniamo male la chitarra. Il secondo stadio di sofferenza sta nel riconoscere quanto poco riusciamo a lavorare di nostra iniziativa. Il terzo stadio di sofferenza sta nel riconoscere chi siamo: un essere spregevole, egoista, crudele, che sorride in modo accattivante da una facciata di buone maniere, buona educazione, e cortesia. Fin quando non saremo in grado di accettare questa povertà del nostro essere senza scuse e senza critica, saremo incapaci di perdonarci. Quando ci perdoniamo, senza recriminazioni, perdoniamo gli altri. Quando rinunciamo a criticare noi stessi, rinunciamo a criticare gli altri. Attraverso questa percezione chiara dell’impotenza e dell’infelicità mia e degli altri - nell’accettare me stesso e gli altri - sono in grado di accettare la musica. Ma, per quanto perdonato e capace di perdonare, io eredito le conseguenze dei miei errori.
Al primo stadio scopriamo che, per quanto la muscolatura delle mani non sia sviluppata, non è qui che risiede il problema: non comunichiamo con le dita della mano sinistra, non abbiamo alcun senso del polso destro, abbiamo poca consapevolezza di ciò che significhi vivere dentro il nostro corpo. E poi, lavoriamo troppo duramente: un’enorme quantità di sforzo va sprecato in smorfie facciali, labbra spasmodicamente contratte, dita che sforzano sulle corde con gesti stravaganti del braccio e perfino delle gambe. Convinti che l’abilità si guadagni con lo sforzo, ci esercitiamo eroicamente. Convinti che i risultati arrivino più velocemente con la velocità, ci precipitiamo. Acquistando esperienza, rallentiamo, accettando il ritmo del processo di cui ora siamo parte. Rinunciamo alla forza nel nostro lavoro, riconoscendo che porta violenza nella nostra attività. Siamo ora al secondo stadio.
Al secondo stadio impariamo che l’entusiasmo non basta. Gli sforzi necessari sono sufficienti, forse addirittura eleganti, ma non sono eccitanti e certamente non così interessanti come quelli superflui. Senza interesse siamo incapaci di continuare; senza nessuno che mi dica cosa fare, cosa posso fare? Scopriamo i nostri limiti, quanto ancora possiamo chiedere a noi stessi, il grado della nostra risolutezza, se questa pratica per noi sia reale o solo un concetto astratto, e così pratichiamo l’impegno.
Al terzo stadio impariamo che tutto ciò che abbiamo è quello che riusciamo a dare via. Questo può essere il successo mondano, l’esperienza, le nostre aspettative e ambizioni. Lasciare andare quello che abbiamo desiderato per noi stessi ci dà una libertà notevole. È strano, ma lasciar andare crea le condizioni che permettono che le cose desiderate ci ritornino, ma in un modo diverso, un modo che non avremmo potuto prevedere. Questo lasciar andare ciò che abbiamo acquisito è il completamento del nostro processo, e un completamento è un nuovo inizio.